
Il termine competenza, come è usato nel linguaggio comune, evoca un’abilità pratica consolidata con un prolungato esercizio, e al tempo stesso l’affidabilità che tale abilità genera negli altri: competente è qualcuno della cui abilità ci si può fidare, perché “sa il fatto suo”.
Nella psicologia sociale il termine ha assunto un significato più specifico a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. L’origine di questa accezione del termine si deve allo psicologo del lavoro americano David McClelland, il quale pubblicò nel 1973 uno studio sulle relazioni fra quoziente intellettuale, risultati negli studi universitari e successo professionale (1). Egli mise in evidenza che esiste una sproporzione fra quoziente intellettuale e risultati accademici da un lato, successo professionale dall’altro: succede, cioè, che una quota significativa di persone con alto QI e ottimi risultati accademici non abbia un alto livello di successo professionale. Riflettendo su questi dati, McClelland trasse la conclusione che il successo professionale è determinato, oltre che dal QI e dalla scienza acquisita negli studi, anche da altri fattori, che egli chiamò competenze.
Così inteso, il concetto di competenza comprendeva elementi di natura diversa: le conoscenze pratiche, le capacità di ordine tecnico, gli aspetti del carattere, le caratteristiche di natura fisica.
McClelland cominciò a catalogare, in relazione a mansioni e imprese determinate, costellazioni di competenze. Richard Boyatzis, suo collaboratore, ricercò gli elementi comuni alle costellazioni di competenze studiate, e nel 1981 giunse alla seguente definizione di competenza: “Una caratteristica intrinseca di un individuo causalmente collegata ad una perfomance efficace o superiore nella mansione, come ad esempio: motivazioni, tratti caratteriali, abilità, aspetti della propria immagine di sé, conoscenze” (2). Con questa definizione la competenza cominciò a slegarsi da un contesto lavorativo specifico. Infatti Boyatzis individuò un nucleo di competenze trasversali che, in base ai suoi studi, tutti i manager eccellenti tendono ad avere, qualunque sia il loro contesto lavorativo.
Lungo gli anni si sono affermati significati sempre più limitati e precisi della competenza, nella misura in cui ci si è resi conto che una nozione troppo ampia e generica perdeva di utilità pratica (3). In questa linea è stato decisivo lo studio di Charles Woodruffe, il quale nel 1993 definì le competenze come “quei comportamenti osservabili che contribuiscono al successo di un compito o funzione” (4).
Il pregio di questa definizione è di aver ristretto l’ambito delle competenze, in base a tre criteri:
1. Le competenze sono comportamenti: perciò non rientrano nelle competenze le conoscenze, né i tratti della personalità, né le caratteristiche fisiche.
2. Deve trattarsi di comportamenti osservabili: pertanto misurabili, sia nel loro grado di sviluppo in un momento dato, sia nell’apprendimento e nella crescita.
3. Deve trattarsi di comportamenti che contribuiscono al successo di un compito o di una funzione: pertanto esse vanno identificate a partire dallo scopo pratico che ci si propone di realizzare.
Ipotizziamo, ad esempio, che io mi proponga di organizzare il servizio di centralino per una istituzione. Parto dal riflettere quali caratteristiche deve avere il servizio che voglio garantire all’utente. Dopo averle individuate, ne ricavo la mappa delle competenze del centralinista, al quale, ad esempio, valuto che vada richiesto di:
1. Parlare con buona dizione l’italiano.
2. Padroneggiare l’inglese.
3. Essere cortese.
4. Essere tenace nel cercare le persone cui diramare le telefonate, fino a trovarle.
5. Interrompere, con buon senso, la ricerca dopo un certo tempo.
6. Essere preciso, in tali casi, nel comunicare al destinatario il messaggio lasciato da chi lo ha cercato invano.
Ognuno dei comportamenti su descritti costituisce una competenza in relazione allo svolgimento del ruolo di centralinista così come io l’ho configurato.
La nozione di Woodruffe, che lega le competenze ai comportamenti e ne fa il collegamento fra le qualità personali e una specifica missione professionale, è rimasta fino ad oggi il punto di riferimento di una grande parte della psicologia del lavoro (5).
La nozione di Woodruffe venne completata nel 1999 da Pablo Cardona e Nuria Chinchilla, i quali aggiunsero ad essa l’elemento della abitualità: non costituiscono competenza i comportamenti sporadici, ma solo quelli abituali, cioè incorporati all’azione quotidiana della persona. Le competenze sono pertanto “quei comportamenti abituali e osservabili che contribuiscono al successo di un compito o di una funzione” (6).
Questa aggiunta ha un grande valore sostanziale: affermare che la competenza è un insieme di comportamenti abituali permette di connettere le competenze con gli abiti, intesi come le qualità, consistenti nella facilità e prontezza ad agire secondo un certo fine, acquisite con la ripetizione volontaria di atti. Dire “comportamenti abituali” equivale a dire “abiti comportamentali”. É lo stesso fenomeno considerato da due punti di vista: il primo, quello dei comportamenti, è esterno e osservabile; il secondo, quello dell’abito, è interiore alla persona. Tuttavia le due dimensioni, esterna e interna, coincidono, in quanto afferiscono allo stesso individuo. Pertanto lo sviluppo delle competenze significa l’acquisizione di nuovi abiti di comportamento.
La competenza, così concepita, risulta essere uno strumento utile per esprimere in modo concreto le qualità interiori della persona e per collegarle con la realizzazione di specifiche funzioni professionali.
La precisazione dell’abitualità, in aggiunta agli altri requisiti, permette di superare una contraddizione che il concetto di competenza avrebbe, se la si volesse ridurre al mero comportamento. Infatti il comportamento è unico solo se considerato nella concretezza dell’agire. Nel momento in cui me ne servo per definire una competenza, la definizione che ottengo è necessariamente astratta. Così, ad esempio, riferendomi all’esempio prima fatto, “essere cortese” non designa un solo comportamento, ma una pluralità di comportamenti possibili. Inoltre, per poter rispondere all’esigenza di “essere cortese” e dunque sapere come comportarsi, il centralinista avrà bisogno di comprendere cosa in astratto significa essere cortese. Il concetto di cortesia comporta una potenzialità di comportamenti che sono diversi in relazione ai contesti. Perciò la competenza ha in sé un significato astratto che è in contrasto col carattere concreto del comportamento fattuale. Il ricorso all’abito permette di superare questa contraddizione: una pluralità di comportamenti è possibile in quanto essi riflettono un medesimo abito, che, essendo una qualità interiore, è una potenzialità unica rispetto alle sue diverse attualizzazioni. Ciò spiega perché, una volta definita una competenza, sia possibile enucleare al suo interno singoli comportamenti, e che la competenza possa apparire perciò come un fascio di comportamenti. Questa precisazione è importante per l’aspetto dello sviluppo, è su comportamenti quanto più possibile specifici che ci si autovaluta e ci si esercita.
Di conseguenza l’espressione “abilità” (skill (7)), che nel linguaggio comune indica l’abito (8), designa propriamente l’aspetto interiore della competenza, distinguendolo dall’aspetto del comportamento esteriore. L’espressione “competenza” accomuna invece i due aspetti, nella sintesi “comportamenti abituali = abiti comportamentali”. Essa ha dunque un significato più ampio di “abilità”.
Note
1) D.C. McClelland, Testing for Competence Rather than Intelligence, cit. Nato nel 1917 e morto nel 1998, ha insegnato Psicologia sociale dal 1956 presso la Harvard University e dal 1987 presso la Boston University. Specialista, oltre che delle competenze, dei bisogni e della motivazione (vedi il cap. 6, § 3). Sulle competenze ha scritto: A Guide to Job Competency Assessment, McBer & Co., Boston 1976; Identifying Competencies with Behavioral Event Interviews, in «Psychological Science», 9 (1998), pp. 331 – 339.
2) R. Boyatzis, The Competent Manager: a Model for Effective Performance, cit., p. 191. Il pensiero di Boyatzis si evolverà nel mettere in primo piano l’intenzionalità come elemento qualificante delle competenze: vedi R. Boyatzis, Intentional Change Theory from a Complexity Perspective, in «Journal of Management Development», 25 (2006), pp. 607 – 623; Boyatzis R. - Akrivou K., The Ideal Self as a Driver of Intentional Change, in «Journal of Management Development», 25 (2006), pp. 624 – 642.
3) Una trattazione completa della storia e delle utilizzazioni delle competenze si trova in L. Evangelista, Le competenze: cosa sono, come rilevarle, come si utilizzano nell’orientamento, 2006, pubblicato on-line su http://www.orientamento.it/indice/le-competenze-cosa-sono-come-rilevarle-come-si-utilizzano-nellorientamento/
4) C. Woodruffe, Assessment Centers: Identifying and Developing Competence, CIPD, London 1993, p. 85. Woodruffe distingue fra competency (= il comportamento) e competence (= la funzione lavorativa): “A competency is a set of behaviour patterns that the incumbent needs to bring to a position in the order to perform its tasks and functions with competence” (Id., What is meant by a competency?, in R. Boam – P. Sparrow (eds.), Designing and Achieving Competency, McGraw-Hill, London 1992, p. 17). Seguendo la sua impostazione, nel 2009 il Chartered Institute of Personnel and Development forniva la seguente distinzione: “Competency is more precisely defined as the behaviours that employees must have, or must acquire, to input into a situation in order to achieve high levels of performance, while competence relates to a system of minimum standards or is demonstrated by performance and outputs” (CIPD, Competency and competency frameworks, 2009, pubblicato on-line su http://www.cipd.co.uk/hr-resources/factsheets/competence-competency-frameworks.aspx).
5) Un riconoscimento particolarmente autorevole a questa impostazione viene da Claude Lévy-Leboyer, professore di Psicologia del Lavoro presso la Université René Descartes (Paris V), già Presidente dell’Associazione Internazionale di Psicologia Applicata e membro fondatore dell’ENOP (European Network of Organizational Psychology). Nel suo libro La gestion des compétences (Éditions d’Organisation, Paris 2009), riconosce la validità della nozione di Woodruffe (pp. 25-31) e propone questa definizione: “Les compétences sont des répertoires de comportements que certaines personnes maîtrisent mieux que d’autres, ce qui les rend efficaces dans une situation donnée” (p. 35).
6) P. Cardona – N. Chinchilla, Evaluación y desarrollo de las competencias directivas, in «Harvard-Deusto Business Review», 89 (1999), pp. 10 – 27.
7) Utilizzo i termini “abilità” e “skill” come sinonimi, pur sapendo che alcuni operano una distinzione: il termine abilità (ability), così come il termine capacità, designerebbe il portato di tratti ereditari; il termine qualità (skill) designerebbe il risultato dell’esercizio volontario. In questa prospettiva l’acquisizione delle qualità (skills) sarebbe condizionata e limitata dal numero e dalle dimensioni delle abilità (capacità) di partenza, così come il buon risultato di una giocata è condizionato dalle carte che il giocatore riceve in partenza. Per questa distinzione e questo esempio vedi R. Schmidt R. – C. Wrisberg, Motor Learning and Performance: a Situation-Based Learning Approach, Human Kinetics, Champaign 2008, pp. 166-167. Ai fini delle competenze, preferisco ignorare queta distinzione, in base alla considerazione che sia abilities che skills sono potenzialità interiori rispetto all’attualità del comportamento.
8) Sia abilità (in latino habilitas) che abito (in latino habitus) hanno analoga etimologia, collegata col verbo habēre.